AIME – sulle immagini di Roberto Zappacosta (di Enrico Carli)

 

C’è ben poco di chiaro in queste immagini oblique, sgranate, analogiche, oniriche. Sembrano smaterializzarsi sotto i nostri occhi come rapidi flash della mente, impressioni e racconto dell’inquietudine, dello stato confusionale
o del trapasso. I cimiteri sono un soggetto costante per Zappacosta, anzi potremmo dire che la sua produzione fotografica (Quiete, DimensioneIncompresa) è dedicata interamente al culto dei morti. Illustri, in questo caso.
Siamo a Parigi, al Père-Lachaise. C’è una donna raccolta sulla tomba di Marcel Proust, l’autore della Recherche. Un cielo e dei rami che si fondono in un sepolcro (quello di Jim Morrison, ma che potrebbe essere di chiunque). Ma siamo anche al Centre Pompidou e al Musée d’Orsay. Un water del Beaubourg; una palla che riflette un cubo; degli stivaletti in primo piano e un uomo in frac, che guarda altrove; i tetti di Parigi visti dall’audace architettura del museo d’arte moderna (alla realizzazione del quale collaborò Renzo Piano). Ci sono degli angeli monchi, il naso adunco del profilo di una statua; c’è poi il celebre dipinto L’Origine du Monde di Gustave Courbet, che lo psicanalista-filosofo Jacques Lacan acquistò all’asta nel 1955 e dopo la sua morte venne trasferito al Musée d’Orsay, dov’è a tutt’oggi esposto. I morti si celebrano in vita così come i loro lasciti, le opere.

Aime, in francese, è una forma del verbo “aimer” (amare), prima e terza persona singolare dell’indicativo presente, dal significato che oscilla a seconda dell’impiego (amo/a, vuol bene, piace…). Ma è anche un imperativo presente e acquisisce ben altro umore. Essendo però un singolo verbo privo di sostegni sintattici, e in assenza di pronome personale, esso può esprimere un desiderio senza oggetto, un apprezzamento privo di referente, un’imposizione
o l’espressione di una preferenza. Le possibili letture brancolano nel regno delle ipotesi aggrappandosi a cedevoli margini di senso, a ciò che si sa dei riferimenti. Allievo di Mario Giacomelli – che, grazie anche alla poesia di Pavese, traslò l’immagine senza forma della morte in qualcosa che si potesse vedere (nella serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) – Zappacosta non esorcizza la “signora con la falce” assegnandole un corpo, piuttosto sembra cadere in trance fino a invischiarsi con essa. Vediamola, questa parola – trance: “è uno stato psicofisiologico caratterizzato da fenomeni quali insensibilità agli stimoli esterni, perdita o attenuazione della coscienza, dissociazione psichica, che può essere indotto mediante ipnosi o autoipnosi.

Alcune persone – sensitivi, sciamani, medium ecc. – riescono ad ottenerlo spontaneamente” (dal dizionario). È uno stato dell’essere, come l’ispirazione, che è possibile ottenere anche spontaneamente, laddove si produce un diverso livello di coscienza capace di restituirci qualcosa che ci appartiene, che diamo per vero come un’esperienza premorte. In questo senso Zappacosta è puro istinto. Non sta lì a fare la foto “bella”, lui si dissocia psichicamente. Non ha
intenzioni ritrattistiche o di denuncia, lui perde la coscienza. Sarebbe un errore fissare questi scatti da svegli, in piedi, dopo aver preso un caffè, con accanto qualcuno più o meno vigile di noi. Bisognerebbe poter visionare queste
immagini nel pieno del sonno o negli istanti che precedono il risveglio, senza cognizione e vincoli di significato.

Ma appunto qualcosa, di questi riferimenti, la sappiamo: Marcel Proust ha ricercato il tempo perduto e ne ha fatto un mondo immateriale abitabile con tutti i sensi (per chi ne ha dubbi, il viaggio proustiano inizia proprio col senso
del gusto). Jim “il Re Lucertola” Morrison ha trasceso gli stati della coscienza per poi consegnarci le sue celebri canzoni lisergiche; mentre Gustave Courbet ci ha posto sotto gli occhi l’inizio ma anche la fine del mondo nel suo dipinto forse più apodittico. Zappacosta – che evoca nei suoi scatti la presenza di questi grandi artisti – pare invitarci a chiudere gli occhi per vedere al di là del tempo, della coscienza e della continuità. Ci piaccia o meno, l’esposizione si allestisce nel sonno della ragione, dove le visioni diventano enigmatiche allegorie della nostra condizione spirituale.

#comparse (in ordine di sparizione):

Gustave Courbet

(1819-1877)

Marcel Proust

(1871-1922)

Cesare Pavese

(1908-1950)

Jim Morrison

(1943-1971)

Jacques Lacan

(1901-1981)

Mario Giacomelli

(1925-2000)

La mostra, curata da Paolo Monina, verrà inaugurata Sabato 07 Settembre alle ore 19:00 e resterà aperta, anche su appuntamento, fino al 31 Ottobre.

Orari:

Settembre

Giovedì 17-19.30

Venerdì e Sabato 10-13, 17-19.30

Ottobre

Venerdì e Sabato 10-13, 17-19.30

Per informazioni:

SpazioArte della Fondazione A.R.C.A. – Onlus

V. F.lli Bandiera, 29

Senigallia

tel. 071 0975279

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segreteria@fondazionearca.org

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